lunedì, novembre 27, 2006
LITTLE ITALY AL SENATO
Photo by Carlo Alabiso
Un intelligente e arguto (come sempre) articolo di Furio Colombo che riportiamo con grande piacere.
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da l'Unità del 27 novembre 2006
L'uomo del ponte
di Furio Colombo
Il 23 novembre, giovedì, forse sarà ricordato per un evento imprevisto. La piccola maggioranza dell'Unione è riuscita a imporre un lavoro regolare (relativamente regolare) all'aula del Senato. E in due giorni il discusso "decreto fiscale" è diventato legge senza ricorrere al voto di fiducia. In questa piccola storia ci sono due o tre lezioni interessanti. La prima è che un risultato del genere - che è molto civile, ma che era diventato del tutto insolito durante il regime di Berlusconi, in cui quasi tutto si approvava con il voto di fiducia - si può realizzare soltanto se le due parti stanno al gioco, il gioco democratico. Non è affatto vero che il gioco richiede di accettare simbolicamente un certo numero di emendamenti dell'opposizione. Le parti sono troppo lontane, e l'opposizione - tuttora strettamente berlusconiana - è ancora troppo impegnata nella distruzione piuttosto che nella discussione.Però un passo avanti c'è stato. Consiste nell'aver preso l'impegno, di non buttare all'aria il confronto trasformandolo in scontro, e quell'impegno - tutto sommato - è stato rispettato. La compattezza della maggioranza è stato certo il fatto decisivo. Ma la discussione c'è stata, o meglio c'è stato un lungo e paziente ascolto di ragioni in cui dati e osservazioni tecniche che potevano meritare attenzione erano poche e spesso annegate dentro dimostrazioni goliardiche e discorsi allegramente campati in aria. La seconda lezione riguarda i senatori a vita. Una sorta di vera e propria agitazione coglie molti, nell'opposizione, soprattutto i "capigruppo", ovvero i registi degli interventi-teatro, quando prendono posto in aula i senatori a vita. In apparenza si tratta di una ripicca, di una rabbia che appare un poco infantile a causa del fatto che tutti (salvo Giulio Andreotti) votano sempre per il centrosinistra. C'è una seconda ragione: sostengono che il voto dei senatori a vita garantisce i ristretti margini di ciascuna vittoria dell'Unione. Ma se ascoltate con più attenzione la recriminazione continua, a momenti una sorta di maledizione lanciata contro persone che sono in aula e votano per diritto costituzionale, vi accorgerete che proprio la Costituzione è l'ostacolo, non le persone. Berlusconi ha coltivato a lungo e fino ai dettagli, tra i suoi, un'abitudine al disprezzo costituzionale. La Costituzione italiana, è stato insegnato loro, è comunista, stalinista, nemica. Che sia stata scritta dal più ampio ed elevato schieramento pluralistico, laico e religioso, conservatore e progressista (nel senso dei comunisti e socialisti e azionisti italiani del dopo-Resistenza), che sia stata firmata da un uomo come Terracini, per molti di loro conta poco. Ho detto deliberatamente "molti" e non "tutti", perché si nota al primo sguardo l'imbarazzo e l'estraneità di alcuni senatori del centrodestra alle aggressioni deliberatamente sgradevoli riservate ai senatori a vita. Ma imbarazza tutto il Senato (e resterà purtroppo negli studi che gli storici dedicheranno a questa Camera) la richiesta ripetuta e formale del leader di Forza Italia di togliere ai senatori a vita il diritto di voto. È evidente che conta ancora la lezione berlusconiana: tutto ciò che è legato alla Resistenza e alla Costituzione deve essere trattato con disprezzo, e fatto oggetto di aggressione ogni volta che è possibile. Per i veri credenti di Berlusconi, frastornati ma tuttora disseminati in questa aula, gli ordini sono ordini. E, per quanto quegli ordini siano balordi e gettino una luce spiacevole su chi a quegli ordini obbedisce, in Forza Italia non vi sono obiettori di coscienza. Però c'è un senso in questo comportamento insensato. Berlusconi è al centro del suo dominio, controlla il comportamento di tutti questi adulti che - a incontrarli personalmente - sembrano persone normali. Ascoltati in aula, quando vengono scossi dalla tarantola dell'insulto al senatore a vita, appaiono materiale da film (parlo della vecchia commedia all'italiana oppure di un film ancora non fatto sui volenterosi seguaci di Putin nella Russia di oggi). La terza lezione ci parla ancora di Berlusconi, ma questa volta non del retrogusto amaro e insultante che ha segnato tanti suoi memorabili interventi, dall'aver chiamato "kapò" di campo di sterminio l'eurodeputato tedesco Schultz (la causa: aveva osato far cenno al conflitto di interessi), all'aver definito "criminale" il giornalismo di Enzo Biagi. Qui piuttosto emerge la grande traccia lasciata da Berlusconi per cinque anni con il suo stile unico al mondo: governo finto e virtuale. Dici cose che non fai, prometti cose che non sono realizzabili, affermi con caparbia serietà di avere fatto cose che non sono mai avvenute (come quando diceva, ricordate? «Sono avanti col programma»). Certo, il governo virtuale richiede il contenitore stagno di una televisione finta, in cui tutte le notizie di politica interna sono generate dall'unica fonte del padrone-editore-presidente del Consiglio. Per capire come si genera un simile blocco di informazioni normali basta confrontare tutti i libri di Bruno Vespa sul regime detto "governo di centrodestra" e tutte le migliaia di trasmissioni dello stesso Bruno Vespa con il volenteroso allineamento di molti giornalisti che non erano in vena di rischiare il posto. Questa apparente divagazione serve a introdurre la clamorosa irruzione in aula del Ponte di Messina.Che cosa c'entra il Ponte di Messina, invenzione della brillante fantasia mediatica di Silvio Berlusconi, della lista di gare e di appalti da annunciare dal suo altrettanto fantasioso ministro Lunardi, del presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro (niente risvolti oscuri, perché l'opera continuamente annunciata non ha mai avuto alcun rapporto con la realtà)? Che cosa c'entra un dibattito al Senato di oggi con una accurata e costosa simulazione televisiva che ieri, ai tempi di Berlusconi, abbiamo visto decine di volte in televisione come se fosse vera? C'entra perché evidentemente non si può fare per cinque anni la comparsa nel presepio vivente di Silvio Berlusconi e poi, all'improvviso, prendere atto della realtà e comportarsi da persona normale. Comunque, ecco la storia. Vale la pena di seguirla perché insegna molto. La scena è un'aula del Senato della Repubblica ai giorni nostri. Coloro che sono in aula, divisi nei due schieramenti del centrodestra e del centrosinistra, hanno letto il decreto fiscale proposto dal Governo, un documento che precede la legge finanziaria, in quanto regola alcuni aspetti essenziali dei conti dello Stato e, dunque, delle entrate e delle spese possibili. Tutti, sia pure con interpretazioni divergenti, sanno che il momento fiscale, dunque finanziario, dunque di disponibilità di danaro pubblico da spendere, è drammatico. Si può dibattere se il tracollo sia stato portato in pochi giorni da Romano Prodi o in cinque lunghi e accurati anni di non governo da Silvio Berlusconi. Ma la notizia base è comune, e ce la ricordano l'Europa e il monitoraggio internazionale: si tratta di risalire. Abbiamo buone speranze, ma siamo a terra. In questa scena fa irruzione il senatore Ciccanti (Udc) che all'improvviso grida (trascrivo dai verbali): «Sul Ponte dello Stretto di Messina, colleghi del centrosinistra, sulla Sicilia fermatevi! Il 2 dicembre terremo, come Udc, una manifestazione nazionale a Palermo. Faremo questa manifestazione per denunciare le vessazioni, le discriminazioni, il ricatto politico e la punizione che il centrosinistra ha stabilito per la Sicilia di Cuffaro così come per chiunque non abbia votato Prodi il 9 aprile». Direte che il senatore Ciccanti non è figura di primo piano. È un giudizio soggettivo, naturalmente. Ma sulla scena di questo strano teatro non è solo. Ha preceduto di qualche istante il primo attore Schifani, capogruppo di Forza Italia, che tuona: «Signor Presidente, il decreto legge al nostro esame storna i fondi destinati alla società Stretto di Messina a favore di opere da realizzare in Sicilia e in Calabria. Questo è un furto a danno del Mezzogiorno». («Applausi del senatore Santini», annota lo stenografo). Ma ecco il senatore Pistorio. La sigla politica che lo riguarda è la seguente: «DC, PRI, IND, MPA», che i limiti di spazio di questo testo mi impediscono di tradurre per esteso. La cospicua sigla ha questo da dire: «L'Italia meridionale, con la Sicilia collegata stabilmente al Ponte, per la sua posizione geografica ha un ruolo storicamente strategico per gli scambi commerciali tra l'Europa, i paesi orientali, il Nord America e il Nord Africa. Ma lo Stretto rappresenta un ostacolo alla fluida circolazione di persone e beni». Sulla scena molto animata gli interventi di peso si susseguono. Il senatore Battaglia (AN): «Non è consentito ai parlamentari di centrosinistra di andare sul territorio ad acclamare l´Antimafia, quando si nega la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Oggi la Sicilia tutta deve dire Sì alla realizzazione del Ponte dello Stretto, perché significa progresso, significa un ponte per l'Europa, perché significa un ponte per i giovani, un ponte per la prosperità» («Vivi applausi dai gruppi AN, FI, UDC e DC-PRI, IND-MPA. Molte congratulazioni», nota lo stenografo). Infine il punto alto del dibattito, in cui confluiscono insieme la voglia di dir male dei senatori a vita e quella di continuare la celebrazione del Ponte, che - nell'immaginario di Berlusconi - era già fatto compiuto «in anticipo sul programma». Senatore Girfatti (DC-PRI-IND-MPA): «Signor Presidente, mi chiedo con quale coscienza oggi i tre ex presidenti della Repubblica, senatori a vita e nostri colleghi, voteranno contro questo ordine del giorno. Credo sia un voto importante sotto l'aspetto di coscienza e dell'unità d'Italia» (applausi e grida). «È straripato il simbolismo del Ponte», ha detto alla fine - con contenuta ironia - Anna Finocchiaro. Una cosa si è capita. Affacciati all'improvviso sulla realtà disastrosa lasciata da cinque anni di leggi-vergogna, leggi ad personam, leggi in clamoroso conflitto di interesse (la legge Gasparri sulla cosiddetta riforma delle telecomunicazioni, tributo finale agli interessi pubblicitari di Mediaset), cinque anni di non governo dedito alla libera spesa ai danni dei conti pubblici e fondato sulla fantasia un po´ bizzarra di Berlusconi produttore da vecchia Hollywood, i senatori della ex Casa delle Libertà sono stati costretti a vedere fatti veri e hanno fatto un balzo indietro gridando «Al Ponte, al Ponte!». Nessuno ha mai detto loro (che non sono così curiosi da leggere altri fogli che quelli padronali) che il Ponte, a parte le simulazioni Tv e i modellini di Vespa, non è mai esistito neppure come studio di fattibilità; che la legge obiettivo era stata inventata per dare un annuncio slegato da un fatto; che i massimi esperti mondiali di strutture come quelle mimate dal computer di Arcore e poi diffuse come fatti veri, hanno dichiarato sempre, senza equivoci, che il Ponte sullo Stretto - così come presentato dalla ditta Berlusconi-Lunardi, così come annunciato dal consorzio Berlusconi-Cuffaro, così come appaltato con gara a cui non ha partecipato alcuna impresa del mondo (salvo una, italiana, che si è aggiudicata da sola l'inesistente commessa) - quel Ponte è una costruzione impossibile. Alcuni di loro però hanno capito che non si poteva abbandonare il fortino della favola berlusconiana. Che cosa resta di cinque anni di governo a crescita zero e buco infinito, senza l'uomo del ponte e le sue magiche simulazioni che - forse, ci dice Enrico Deaglio - sono avvenute anche nella conta dei voti? Ma forse spiegheranno tutto questo il 2 dicembre alle loro folle in delirio.
di Furio Colombo
Il 23 novembre, giovedì, forse sarà ricordato per un evento imprevisto. La piccola maggioranza dell'Unione è riuscita a imporre un lavoro regolare (relativamente regolare) all'aula del Senato. E in due giorni il discusso "decreto fiscale" è diventato legge senza ricorrere al voto di fiducia. In questa piccola storia ci sono due o tre lezioni interessanti. La prima è che un risultato del genere - che è molto civile, ma che era diventato del tutto insolito durante il regime di Berlusconi, in cui quasi tutto si approvava con il voto di fiducia - si può realizzare soltanto se le due parti stanno al gioco, il gioco democratico. Non è affatto vero che il gioco richiede di accettare simbolicamente un certo numero di emendamenti dell'opposizione. Le parti sono troppo lontane, e l'opposizione - tuttora strettamente berlusconiana - è ancora troppo impegnata nella distruzione piuttosto che nella discussione.Però un passo avanti c'è stato. Consiste nell'aver preso l'impegno, di non buttare all'aria il confronto trasformandolo in scontro, e quell'impegno - tutto sommato - è stato rispettato. La compattezza della maggioranza è stato certo il fatto decisivo. Ma la discussione c'è stata, o meglio c'è stato un lungo e paziente ascolto di ragioni in cui dati e osservazioni tecniche che potevano meritare attenzione erano poche e spesso annegate dentro dimostrazioni goliardiche e discorsi allegramente campati in aria. La seconda lezione riguarda i senatori a vita. Una sorta di vera e propria agitazione coglie molti, nell'opposizione, soprattutto i "capigruppo", ovvero i registi degli interventi-teatro, quando prendono posto in aula i senatori a vita. In apparenza si tratta di una ripicca, di una rabbia che appare un poco infantile a causa del fatto che tutti (salvo Giulio Andreotti) votano sempre per il centrosinistra. C'è una seconda ragione: sostengono che il voto dei senatori a vita garantisce i ristretti margini di ciascuna vittoria dell'Unione. Ma se ascoltate con più attenzione la recriminazione continua, a momenti una sorta di maledizione lanciata contro persone che sono in aula e votano per diritto costituzionale, vi accorgerete che proprio la Costituzione è l'ostacolo, non le persone. Berlusconi ha coltivato a lungo e fino ai dettagli, tra i suoi, un'abitudine al disprezzo costituzionale. La Costituzione italiana, è stato insegnato loro, è comunista, stalinista, nemica. Che sia stata scritta dal più ampio ed elevato schieramento pluralistico, laico e religioso, conservatore e progressista (nel senso dei comunisti e socialisti e azionisti italiani del dopo-Resistenza), che sia stata firmata da un uomo come Terracini, per molti di loro conta poco. Ho detto deliberatamente "molti" e non "tutti", perché si nota al primo sguardo l'imbarazzo e l'estraneità di alcuni senatori del centrodestra alle aggressioni deliberatamente sgradevoli riservate ai senatori a vita. Ma imbarazza tutto il Senato (e resterà purtroppo negli studi che gli storici dedicheranno a questa Camera) la richiesta ripetuta e formale del leader di Forza Italia di togliere ai senatori a vita il diritto di voto. È evidente che conta ancora la lezione berlusconiana: tutto ciò che è legato alla Resistenza e alla Costituzione deve essere trattato con disprezzo, e fatto oggetto di aggressione ogni volta che è possibile. Per i veri credenti di Berlusconi, frastornati ma tuttora disseminati in questa aula, gli ordini sono ordini. E, per quanto quegli ordini siano balordi e gettino una luce spiacevole su chi a quegli ordini obbedisce, in Forza Italia non vi sono obiettori di coscienza. Però c'è un senso in questo comportamento insensato. Berlusconi è al centro del suo dominio, controlla il comportamento di tutti questi adulti che - a incontrarli personalmente - sembrano persone normali. Ascoltati in aula, quando vengono scossi dalla tarantola dell'insulto al senatore a vita, appaiono materiale da film (parlo della vecchia commedia all'italiana oppure di un film ancora non fatto sui volenterosi seguaci di Putin nella Russia di oggi). La terza lezione ci parla ancora di Berlusconi, ma questa volta non del retrogusto amaro e insultante che ha segnato tanti suoi memorabili interventi, dall'aver chiamato "kapò" di campo di sterminio l'eurodeputato tedesco Schultz (la causa: aveva osato far cenno al conflitto di interessi), all'aver definito "criminale" il giornalismo di Enzo Biagi. Qui piuttosto emerge la grande traccia lasciata da Berlusconi per cinque anni con il suo stile unico al mondo: governo finto e virtuale. Dici cose che non fai, prometti cose che non sono realizzabili, affermi con caparbia serietà di avere fatto cose che non sono mai avvenute (come quando diceva, ricordate? «Sono avanti col programma»). Certo, il governo virtuale richiede il contenitore stagno di una televisione finta, in cui tutte le notizie di politica interna sono generate dall'unica fonte del padrone-editore-presidente del Consiglio. Per capire come si genera un simile blocco di informazioni normali basta confrontare tutti i libri di Bruno Vespa sul regime detto "governo di centrodestra" e tutte le migliaia di trasmissioni dello stesso Bruno Vespa con il volenteroso allineamento di molti giornalisti che non erano in vena di rischiare il posto. Questa apparente divagazione serve a introdurre la clamorosa irruzione in aula del Ponte di Messina.Che cosa c'entra il Ponte di Messina, invenzione della brillante fantasia mediatica di Silvio Berlusconi, della lista di gare e di appalti da annunciare dal suo altrettanto fantasioso ministro Lunardi, del presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro (niente risvolti oscuri, perché l'opera continuamente annunciata non ha mai avuto alcun rapporto con la realtà)? Che cosa c'entra un dibattito al Senato di oggi con una accurata e costosa simulazione televisiva che ieri, ai tempi di Berlusconi, abbiamo visto decine di volte in televisione come se fosse vera? C'entra perché evidentemente non si può fare per cinque anni la comparsa nel presepio vivente di Silvio Berlusconi e poi, all'improvviso, prendere atto della realtà e comportarsi da persona normale. Comunque, ecco la storia. Vale la pena di seguirla perché insegna molto. La scena è un'aula del Senato della Repubblica ai giorni nostri. Coloro che sono in aula, divisi nei due schieramenti del centrodestra e del centrosinistra, hanno letto il decreto fiscale proposto dal Governo, un documento che precede la legge finanziaria, in quanto regola alcuni aspetti essenziali dei conti dello Stato e, dunque, delle entrate e delle spese possibili. Tutti, sia pure con interpretazioni divergenti, sanno che il momento fiscale, dunque finanziario, dunque di disponibilità di danaro pubblico da spendere, è drammatico. Si può dibattere se il tracollo sia stato portato in pochi giorni da Romano Prodi o in cinque lunghi e accurati anni di non governo da Silvio Berlusconi. Ma la notizia base è comune, e ce la ricordano l'Europa e il monitoraggio internazionale: si tratta di risalire. Abbiamo buone speranze, ma siamo a terra. In questa scena fa irruzione il senatore Ciccanti (Udc) che all'improvviso grida (trascrivo dai verbali): «Sul Ponte dello Stretto di Messina, colleghi del centrosinistra, sulla Sicilia fermatevi! Il 2 dicembre terremo, come Udc, una manifestazione nazionale a Palermo. Faremo questa manifestazione per denunciare le vessazioni, le discriminazioni, il ricatto politico e la punizione che il centrosinistra ha stabilito per la Sicilia di Cuffaro così come per chiunque non abbia votato Prodi il 9 aprile». Direte che il senatore Ciccanti non è figura di primo piano. È un giudizio soggettivo, naturalmente. Ma sulla scena di questo strano teatro non è solo. Ha preceduto di qualche istante il primo attore Schifani, capogruppo di Forza Italia, che tuona: «Signor Presidente, il decreto legge al nostro esame storna i fondi destinati alla società Stretto di Messina a favore di opere da realizzare in Sicilia e in Calabria. Questo è un furto a danno del Mezzogiorno». («Applausi del senatore Santini», annota lo stenografo). Ma ecco il senatore Pistorio. La sigla politica che lo riguarda è la seguente: «DC, PRI, IND, MPA», che i limiti di spazio di questo testo mi impediscono di tradurre per esteso. La cospicua sigla ha questo da dire: «L'Italia meridionale, con la Sicilia collegata stabilmente al Ponte, per la sua posizione geografica ha un ruolo storicamente strategico per gli scambi commerciali tra l'Europa, i paesi orientali, il Nord America e il Nord Africa. Ma lo Stretto rappresenta un ostacolo alla fluida circolazione di persone e beni». Sulla scena molto animata gli interventi di peso si susseguono. Il senatore Battaglia (AN): «Non è consentito ai parlamentari di centrosinistra di andare sul territorio ad acclamare l´Antimafia, quando si nega la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Oggi la Sicilia tutta deve dire Sì alla realizzazione del Ponte dello Stretto, perché significa progresso, significa un ponte per l'Europa, perché significa un ponte per i giovani, un ponte per la prosperità» («Vivi applausi dai gruppi AN, FI, UDC e DC-PRI, IND-MPA. Molte congratulazioni», nota lo stenografo). Infine il punto alto del dibattito, in cui confluiscono insieme la voglia di dir male dei senatori a vita e quella di continuare la celebrazione del Ponte, che - nell'immaginario di Berlusconi - era già fatto compiuto «in anticipo sul programma». Senatore Girfatti (DC-PRI-IND-MPA): «Signor Presidente, mi chiedo con quale coscienza oggi i tre ex presidenti della Repubblica, senatori a vita e nostri colleghi, voteranno contro questo ordine del giorno. Credo sia un voto importante sotto l'aspetto di coscienza e dell'unità d'Italia» (applausi e grida). «È straripato il simbolismo del Ponte», ha detto alla fine - con contenuta ironia - Anna Finocchiaro. Una cosa si è capita. Affacciati all'improvviso sulla realtà disastrosa lasciata da cinque anni di leggi-vergogna, leggi ad personam, leggi in clamoroso conflitto di interesse (la legge Gasparri sulla cosiddetta riforma delle telecomunicazioni, tributo finale agli interessi pubblicitari di Mediaset), cinque anni di non governo dedito alla libera spesa ai danni dei conti pubblici e fondato sulla fantasia un po´ bizzarra di Berlusconi produttore da vecchia Hollywood, i senatori della ex Casa delle Libertà sono stati costretti a vedere fatti veri e hanno fatto un balzo indietro gridando «Al Ponte, al Ponte!». Nessuno ha mai detto loro (che non sono così curiosi da leggere altri fogli che quelli padronali) che il Ponte, a parte le simulazioni Tv e i modellini di Vespa, non è mai esistito neppure come studio di fattibilità; che la legge obiettivo era stata inventata per dare un annuncio slegato da un fatto; che i massimi esperti mondiali di strutture come quelle mimate dal computer di Arcore e poi diffuse come fatti veri, hanno dichiarato sempre, senza equivoci, che il Ponte sullo Stretto - così come presentato dalla ditta Berlusconi-Lunardi, così come annunciato dal consorzio Berlusconi-Cuffaro, così come appaltato con gara a cui non ha partecipato alcuna impresa del mondo (salvo una, italiana, che si è aggiudicata da sola l'inesistente commessa) - quel Ponte è una costruzione impossibile. Alcuni di loro però hanno capito che non si poteva abbandonare il fortino della favola berlusconiana. Che cosa resta di cinque anni di governo a crescita zero e buco infinito, senza l'uomo del ponte e le sue magiche simulazioni che - forse, ci dice Enrico Deaglio - sono avvenute anche nella conta dei voti? Ma forse spiegheranno tutto questo il 2 dicembre alle loro folle in delirio.