lunedì, novembre 27, 2006
LITTLE ITALY AL SENATO
Photo by Carlo Alabiso
Un intelligente e arguto (come sempre) articolo di Furio Colombo che riportiamo con grande piacere.
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da l'Unità del 27 novembre 2006
L'uomo del ponte
di Furio Colombo
Il 23 novembre, giovedì, forse sarà ricordato per un evento imprevisto. La piccola maggioranza dell'Unione è riuscita a imporre un lavoro regolare (relativamente regolare) all'aula del Senato. E in due giorni il discusso "decreto fiscale" è diventato legge senza ricorrere al voto di fiducia. In questa piccola storia ci sono due o tre lezioni interessanti. La prima è che un risultato del genere - che è molto civile, ma che era diventato del tutto insolito durante il regime di Berlusconi, in cui quasi tutto si approvava con il voto di fiducia - si può realizzare soltanto se le due parti stanno al gioco, il gioco democratico. Non è affatto vero che il gioco richiede di accettare simbolicamente un certo numero di emendamenti dell'opposizione. Le parti sono troppo lontane, e l'opposizione - tuttora strettamente berlusconiana - è ancora troppo impegnata nella distruzione piuttosto che nella discussione.Però un passo avanti c'è stato. Consiste nell'aver preso l'impegno, di non buttare all'aria il confronto trasformandolo in scontro, e quell'impegno - tutto sommato - è stato rispettato. La compattezza della maggioranza è stato certo il fatto decisivo. Ma la discussione c'è stata, o meglio c'è stato un lungo e paziente ascolto di ragioni in cui dati e osservazioni tecniche che potevano meritare attenzione erano poche e spesso annegate dentro dimostrazioni goliardiche e discorsi allegramente campati in aria. La seconda lezione riguarda i senatori a vita. Una sorta di vera e propria agitazione coglie molti, nell'opposizione, soprattutto i "capigruppo", ovvero i registi degli interventi-teatro, quando prendono posto in aula i senatori a vita. In apparenza si tratta di una ripicca, di una rabbia che appare un poco infantile a causa del fatto che tutti (salvo Giulio Andreotti) votano sempre per il centrosinistra. C'è una seconda ragione: sostengono che il voto dei senatori a vita garantisce i ristretti margini di ciascuna vittoria dell'Unione. Ma se ascoltate con più attenzione la recriminazione continua, a momenti una sorta di maledizione lanciata contro persone che sono in aula e votano per diritto costituzionale, vi accorgerete che proprio la Costituzione è l'ostacolo, non le persone. Berlusconi ha coltivato a lungo e fino ai dettagli, tra i suoi, un'abitudine al disprezzo costituzionale. La Costituzione italiana, è stato insegnato loro, è comunista, stalinista, nemica. Che sia stata scritta dal più ampio ed elevato schieramento pluralistico, laico e religioso, conservatore e progressista (nel senso dei comunisti e socialisti e azionisti italiani del dopo-Resistenza), che sia stata firmata da un uomo come Terracini, per molti di loro conta poco. Ho detto deliberatamente "molti" e non "tutti", perché si nota al primo sguardo l'imbarazzo e l'estraneità di alcuni senatori del centrodestra alle aggressioni deliberatamente sgradevoli riservate ai senatori a vita. Ma imbarazza tutto il Senato (e resterà purtroppo negli studi che gli storici dedicheranno a questa Camera) la richiesta ripetuta e formale del leader di Forza Italia di togliere ai senatori a vita il diritto di voto. È evidente che conta ancora la lezione berlusconiana: tutto ciò che è legato alla Resistenza e alla Costituzione deve essere trattato con disprezzo, e fatto oggetto di aggressione ogni volta che è possibile. Per i veri credenti di Berlusconi, frastornati ma tuttora disseminati in questa aula, gli ordini sono ordini. E, per quanto quegli ordini siano balordi e gettino una luce spiacevole su chi a quegli ordini obbedisce, in Forza Italia non vi sono obiettori di coscienza. Però c'è un senso in questo comportamento insensato. Berlusconi è al centro del suo dominio, controlla il comportamento di tutti questi adulti che - a incontrarli personalmente - sembrano persone normali. Ascoltati in aula, quando vengono scossi dalla tarantola dell'insulto al senatore a vita, appaiono materiale da film (parlo della vecchia commedia all'italiana oppure di un film ancora non fatto sui volenterosi seguaci di Putin nella Russia di oggi). La terza lezione ci parla ancora di Berlusconi, ma questa volta non del retrogusto amaro e insultante che ha segnato tanti suoi memorabili interventi, dall'aver chiamato "kapò" di campo di sterminio l'eurodeputato tedesco Schultz (la causa: aveva osato far cenno al conflitto di interessi), all'aver definito "criminale" il giornalismo di Enzo Biagi. Qui piuttosto emerge la grande traccia lasciata da Berlusconi per cinque anni con il suo stile unico al mondo: governo finto e virtuale. Dici cose che non fai, prometti cose che non sono realizzabili, affermi con caparbia serietà di avere fatto cose che non sono mai avvenute (come quando diceva, ricordate? «Sono avanti col programma»). Certo, il governo virtuale richiede il contenitore stagno di una televisione finta, in cui tutte le notizie di politica interna sono generate dall'unica fonte del padrone-editore-presidente del Consiglio. Per capire come si genera un simile blocco di informazioni normali basta confrontare tutti i libri di Bruno Vespa sul regime detto "governo di centrodestra" e tutte le migliaia di trasmissioni dello stesso Bruno Vespa con il volenteroso allineamento di molti giornalisti che non erano in vena di rischiare il posto. Questa apparente divagazione serve a introdurre la clamorosa irruzione in aula del Ponte di Messina.Che cosa c'entra il Ponte di Messina, invenzione della brillante fantasia mediatica di Silvio Berlusconi, della lista di gare e di appalti da annunciare dal suo altrettanto fantasioso ministro Lunardi, del presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro (niente risvolti oscuri, perché l'opera continuamente annunciata non ha mai avuto alcun rapporto con la realtà)? Che cosa c'entra un dibattito al Senato di oggi con una accurata e costosa simulazione televisiva che ieri, ai tempi di Berlusconi, abbiamo visto decine di volte in televisione come se fosse vera? C'entra perché evidentemente non si può fare per cinque anni la comparsa nel presepio vivente di Silvio Berlusconi e poi, all'improvviso, prendere atto della realtà e comportarsi da persona normale. Comunque, ecco la storia. Vale la pena di seguirla perché insegna molto. La scena è un'aula del Senato della Repubblica ai giorni nostri. Coloro che sono in aula, divisi nei due schieramenti del centrodestra e del centrosinistra, hanno letto il decreto fiscale proposto dal Governo, un documento che precede la legge finanziaria, in quanto regola alcuni aspetti essenziali dei conti dello Stato e, dunque, delle entrate e delle spese possibili. Tutti, sia pure con interpretazioni divergenti, sanno che il momento fiscale, dunque finanziario, dunque di disponibilità di danaro pubblico da spendere, è drammatico. Si può dibattere se il tracollo sia stato portato in pochi giorni da Romano Prodi o in cinque lunghi e accurati anni di non governo da Silvio Berlusconi. Ma la notizia base è comune, e ce la ricordano l'Europa e il monitoraggio internazionale: si tratta di risalire. Abbiamo buone speranze, ma siamo a terra. In questa scena fa irruzione il senatore Ciccanti (Udc) che all'improvviso grida (trascrivo dai verbali): «Sul Ponte dello Stretto di Messina, colleghi del centrosinistra, sulla Sicilia fermatevi! Il 2 dicembre terremo, come Udc, una manifestazione nazionale a Palermo. Faremo questa manifestazione per denunciare le vessazioni, le discriminazioni, il ricatto politico e la punizione che il centrosinistra ha stabilito per la Sicilia di Cuffaro così come per chiunque non abbia votato Prodi il 9 aprile». Direte che il senatore Ciccanti non è figura di primo piano. È un giudizio soggettivo, naturalmente. Ma sulla scena di questo strano teatro non è solo. Ha preceduto di qualche istante il primo attore Schifani, capogruppo di Forza Italia, che tuona: «Signor Presidente, il decreto legge al nostro esame storna i fondi destinati alla società Stretto di Messina a favore di opere da realizzare in Sicilia e in Calabria. Questo è un furto a danno del Mezzogiorno». («Applausi del senatore Santini», annota lo stenografo). Ma ecco il senatore Pistorio. La sigla politica che lo riguarda è la seguente: «DC, PRI, IND, MPA», che i limiti di spazio di questo testo mi impediscono di tradurre per esteso. La cospicua sigla ha questo da dire: «L'Italia meridionale, con la Sicilia collegata stabilmente al Ponte, per la sua posizione geografica ha un ruolo storicamente strategico per gli scambi commerciali tra l'Europa, i paesi orientali, il Nord America e il Nord Africa. Ma lo Stretto rappresenta un ostacolo alla fluida circolazione di persone e beni». Sulla scena molto animata gli interventi di peso si susseguono. Il senatore Battaglia (AN): «Non è consentito ai parlamentari di centrosinistra di andare sul territorio ad acclamare l´Antimafia, quando si nega la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Oggi la Sicilia tutta deve dire Sì alla realizzazione del Ponte dello Stretto, perché significa progresso, significa un ponte per l'Europa, perché significa un ponte per i giovani, un ponte per la prosperità» («Vivi applausi dai gruppi AN, FI, UDC e DC-PRI, IND-MPA. Molte congratulazioni», nota lo stenografo). Infine il punto alto del dibattito, in cui confluiscono insieme la voglia di dir male dei senatori a vita e quella di continuare la celebrazione del Ponte, che - nell'immaginario di Berlusconi - era già fatto compiuto «in anticipo sul programma». Senatore Girfatti (DC-PRI-IND-MPA): «Signor Presidente, mi chiedo con quale coscienza oggi i tre ex presidenti della Repubblica, senatori a vita e nostri colleghi, voteranno contro questo ordine del giorno. Credo sia un voto importante sotto l'aspetto di coscienza e dell'unità d'Italia» (applausi e grida). «È straripato il simbolismo del Ponte», ha detto alla fine - con contenuta ironia - Anna Finocchiaro. Una cosa si è capita. Affacciati all'improvviso sulla realtà disastrosa lasciata da cinque anni di leggi-vergogna, leggi ad personam, leggi in clamoroso conflitto di interesse (la legge Gasparri sulla cosiddetta riforma delle telecomunicazioni, tributo finale agli interessi pubblicitari di Mediaset), cinque anni di non governo dedito alla libera spesa ai danni dei conti pubblici e fondato sulla fantasia un po´ bizzarra di Berlusconi produttore da vecchia Hollywood, i senatori della ex Casa delle Libertà sono stati costretti a vedere fatti veri e hanno fatto un balzo indietro gridando «Al Ponte, al Ponte!». Nessuno ha mai detto loro (che non sono così curiosi da leggere altri fogli che quelli padronali) che il Ponte, a parte le simulazioni Tv e i modellini di Vespa, non è mai esistito neppure come studio di fattibilità; che la legge obiettivo era stata inventata per dare un annuncio slegato da un fatto; che i massimi esperti mondiali di strutture come quelle mimate dal computer di Arcore e poi diffuse come fatti veri, hanno dichiarato sempre, senza equivoci, che il Ponte sullo Stretto - così come presentato dalla ditta Berlusconi-Lunardi, così come annunciato dal consorzio Berlusconi-Cuffaro, così come appaltato con gara a cui non ha partecipato alcuna impresa del mondo (salvo una, italiana, che si è aggiudicata da sola l'inesistente commessa) - quel Ponte è una costruzione impossibile. Alcuni di loro però hanno capito che non si poteva abbandonare il fortino della favola berlusconiana. Che cosa resta di cinque anni di governo a crescita zero e buco infinito, senza l'uomo del ponte e le sue magiche simulazioni che - forse, ci dice Enrico Deaglio - sono avvenute anche nella conta dei voti? Ma forse spiegheranno tutto questo il 2 dicembre alle loro folle in delirio.
di Furio Colombo
Il 23 novembre, giovedì, forse sarà ricordato per un evento imprevisto. La piccola maggioranza dell'Unione è riuscita a imporre un lavoro regolare (relativamente regolare) all'aula del Senato. E in due giorni il discusso "decreto fiscale" è diventato legge senza ricorrere al voto di fiducia. In questa piccola storia ci sono due o tre lezioni interessanti. La prima è che un risultato del genere - che è molto civile, ma che era diventato del tutto insolito durante il regime di Berlusconi, in cui quasi tutto si approvava con il voto di fiducia - si può realizzare soltanto se le due parti stanno al gioco, il gioco democratico. Non è affatto vero che il gioco richiede di accettare simbolicamente un certo numero di emendamenti dell'opposizione. Le parti sono troppo lontane, e l'opposizione - tuttora strettamente berlusconiana - è ancora troppo impegnata nella distruzione piuttosto che nella discussione.Però un passo avanti c'è stato. Consiste nell'aver preso l'impegno, di non buttare all'aria il confronto trasformandolo in scontro, e quell'impegno - tutto sommato - è stato rispettato. La compattezza della maggioranza è stato certo il fatto decisivo. Ma la discussione c'è stata, o meglio c'è stato un lungo e paziente ascolto di ragioni in cui dati e osservazioni tecniche che potevano meritare attenzione erano poche e spesso annegate dentro dimostrazioni goliardiche e discorsi allegramente campati in aria. La seconda lezione riguarda i senatori a vita. Una sorta di vera e propria agitazione coglie molti, nell'opposizione, soprattutto i "capigruppo", ovvero i registi degli interventi-teatro, quando prendono posto in aula i senatori a vita. In apparenza si tratta di una ripicca, di una rabbia che appare un poco infantile a causa del fatto che tutti (salvo Giulio Andreotti) votano sempre per il centrosinistra. C'è una seconda ragione: sostengono che il voto dei senatori a vita garantisce i ristretti margini di ciascuna vittoria dell'Unione. Ma se ascoltate con più attenzione la recriminazione continua, a momenti una sorta di maledizione lanciata contro persone che sono in aula e votano per diritto costituzionale, vi accorgerete che proprio la Costituzione è l'ostacolo, non le persone. Berlusconi ha coltivato a lungo e fino ai dettagli, tra i suoi, un'abitudine al disprezzo costituzionale. La Costituzione italiana, è stato insegnato loro, è comunista, stalinista, nemica. Che sia stata scritta dal più ampio ed elevato schieramento pluralistico, laico e religioso, conservatore e progressista (nel senso dei comunisti e socialisti e azionisti italiani del dopo-Resistenza), che sia stata firmata da un uomo come Terracini, per molti di loro conta poco. Ho detto deliberatamente "molti" e non "tutti", perché si nota al primo sguardo l'imbarazzo e l'estraneità di alcuni senatori del centrodestra alle aggressioni deliberatamente sgradevoli riservate ai senatori a vita. Ma imbarazza tutto il Senato (e resterà purtroppo negli studi che gli storici dedicheranno a questa Camera) la richiesta ripetuta e formale del leader di Forza Italia di togliere ai senatori a vita il diritto di voto. È evidente che conta ancora la lezione berlusconiana: tutto ciò che è legato alla Resistenza e alla Costituzione deve essere trattato con disprezzo, e fatto oggetto di aggressione ogni volta che è possibile. Per i veri credenti di Berlusconi, frastornati ma tuttora disseminati in questa aula, gli ordini sono ordini. E, per quanto quegli ordini siano balordi e gettino una luce spiacevole su chi a quegli ordini obbedisce, in Forza Italia non vi sono obiettori di coscienza. Però c'è un senso in questo comportamento insensato. Berlusconi è al centro del suo dominio, controlla il comportamento di tutti questi adulti che - a incontrarli personalmente - sembrano persone normali. Ascoltati in aula, quando vengono scossi dalla tarantola dell'insulto al senatore a vita, appaiono materiale da film (parlo della vecchia commedia all'italiana oppure di un film ancora non fatto sui volenterosi seguaci di Putin nella Russia di oggi). La terza lezione ci parla ancora di Berlusconi, ma questa volta non del retrogusto amaro e insultante che ha segnato tanti suoi memorabili interventi, dall'aver chiamato "kapò" di campo di sterminio l'eurodeputato tedesco Schultz (la causa: aveva osato far cenno al conflitto di interessi), all'aver definito "criminale" il giornalismo di Enzo Biagi. Qui piuttosto emerge la grande traccia lasciata da Berlusconi per cinque anni con il suo stile unico al mondo: governo finto e virtuale. Dici cose che non fai, prometti cose che non sono realizzabili, affermi con caparbia serietà di avere fatto cose che non sono mai avvenute (come quando diceva, ricordate? «Sono avanti col programma»). Certo, il governo virtuale richiede il contenitore stagno di una televisione finta, in cui tutte le notizie di politica interna sono generate dall'unica fonte del padrone-editore-presidente del Consiglio. Per capire come si genera un simile blocco di informazioni normali basta confrontare tutti i libri di Bruno Vespa sul regime detto "governo di centrodestra" e tutte le migliaia di trasmissioni dello stesso Bruno Vespa con il volenteroso allineamento di molti giornalisti che non erano in vena di rischiare il posto. Questa apparente divagazione serve a introdurre la clamorosa irruzione in aula del Ponte di Messina.Che cosa c'entra il Ponte di Messina, invenzione della brillante fantasia mediatica di Silvio Berlusconi, della lista di gare e di appalti da annunciare dal suo altrettanto fantasioso ministro Lunardi, del presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro (niente risvolti oscuri, perché l'opera continuamente annunciata non ha mai avuto alcun rapporto con la realtà)? Che cosa c'entra un dibattito al Senato di oggi con una accurata e costosa simulazione televisiva che ieri, ai tempi di Berlusconi, abbiamo visto decine di volte in televisione come se fosse vera? C'entra perché evidentemente non si può fare per cinque anni la comparsa nel presepio vivente di Silvio Berlusconi e poi, all'improvviso, prendere atto della realtà e comportarsi da persona normale. Comunque, ecco la storia. Vale la pena di seguirla perché insegna molto. La scena è un'aula del Senato della Repubblica ai giorni nostri. Coloro che sono in aula, divisi nei due schieramenti del centrodestra e del centrosinistra, hanno letto il decreto fiscale proposto dal Governo, un documento che precede la legge finanziaria, in quanto regola alcuni aspetti essenziali dei conti dello Stato e, dunque, delle entrate e delle spese possibili. Tutti, sia pure con interpretazioni divergenti, sanno che il momento fiscale, dunque finanziario, dunque di disponibilità di danaro pubblico da spendere, è drammatico. Si può dibattere se il tracollo sia stato portato in pochi giorni da Romano Prodi o in cinque lunghi e accurati anni di non governo da Silvio Berlusconi. Ma la notizia base è comune, e ce la ricordano l'Europa e il monitoraggio internazionale: si tratta di risalire. Abbiamo buone speranze, ma siamo a terra. In questa scena fa irruzione il senatore Ciccanti (Udc) che all'improvviso grida (trascrivo dai verbali): «Sul Ponte dello Stretto di Messina, colleghi del centrosinistra, sulla Sicilia fermatevi! Il 2 dicembre terremo, come Udc, una manifestazione nazionale a Palermo. Faremo questa manifestazione per denunciare le vessazioni, le discriminazioni, il ricatto politico e la punizione che il centrosinistra ha stabilito per la Sicilia di Cuffaro così come per chiunque non abbia votato Prodi il 9 aprile». Direte che il senatore Ciccanti non è figura di primo piano. È un giudizio soggettivo, naturalmente. Ma sulla scena di questo strano teatro non è solo. Ha preceduto di qualche istante il primo attore Schifani, capogruppo di Forza Italia, che tuona: «Signor Presidente, il decreto legge al nostro esame storna i fondi destinati alla società Stretto di Messina a favore di opere da realizzare in Sicilia e in Calabria. Questo è un furto a danno del Mezzogiorno». («Applausi del senatore Santini», annota lo stenografo). Ma ecco il senatore Pistorio. La sigla politica che lo riguarda è la seguente: «DC, PRI, IND, MPA», che i limiti di spazio di questo testo mi impediscono di tradurre per esteso. La cospicua sigla ha questo da dire: «L'Italia meridionale, con la Sicilia collegata stabilmente al Ponte, per la sua posizione geografica ha un ruolo storicamente strategico per gli scambi commerciali tra l'Europa, i paesi orientali, il Nord America e il Nord Africa. Ma lo Stretto rappresenta un ostacolo alla fluida circolazione di persone e beni». Sulla scena molto animata gli interventi di peso si susseguono. Il senatore Battaglia (AN): «Non è consentito ai parlamentari di centrosinistra di andare sul territorio ad acclamare l´Antimafia, quando si nega la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Oggi la Sicilia tutta deve dire Sì alla realizzazione del Ponte dello Stretto, perché significa progresso, significa un ponte per l'Europa, perché significa un ponte per i giovani, un ponte per la prosperità» («Vivi applausi dai gruppi AN, FI, UDC e DC-PRI, IND-MPA. Molte congratulazioni», nota lo stenografo). Infine il punto alto del dibattito, in cui confluiscono insieme la voglia di dir male dei senatori a vita e quella di continuare la celebrazione del Ponte, che - nell'immaginario di Berlusconi - era già fatto compiuto «in anticipo sul programma». Senatore Girfatti (DC-PRI-IND-MPA): «Signor Presidente, mi chiedo con quale coscienza oggi i tre ex presidenti della Repubblica, senatori a vita e nostri colleghi, voteranno contro questo ordine del giorno. Credo sia un voto importante sotto l'aspetto di coscienza e dell'unità d'Italia» (applausi e grida). «È straripato il simbolismo del Ponte», ha detto alla fine - con contenuta ironia - Anna Finocchiaro. Una cosa si è capita. Affacciati all'improvviso sulla realtà disastrosa lasciata da cinque anni di leggi-vergogna, leggi ad personam, leggi in clamoroso conflitto di interesse (la legge Gasparri sulla cosiddetta riforma delle telecomunicazioni, tributo finale agli interessi pubblicitari di Mediaset), cinque anni di non governo dedito alla libera spesa ai danni dei conti pubblici e fondato sulla fantasia un po´ bizzarra di Berlusconi produttore da vecchia Hollywood, i senatori della ex Casa delle Libertà sono stati costretti a vedere fatti veri e hanno fatto un balzo indietro gridando «Al Ponte, al Ponte!». Nessuno ha mai detto loro (che non sono così curiosi da leggere altri fogli che quelli padronali) che il Ponte, a parte le simulazioni Tv e i modellini di Vespa, non è mai esistito neppure come studio di fattibilità; che la legge obiettivo era stata inventata per dare un annuncio slegato da un fatto; che i massimi esperti mondiali di strutture come quelle mimate dal computer di Arcore e poi diffuse come fatti veri, hanno dichiarato sempre, senza equivoci, che il Ponte sullo Stretto - così come presentato dalla ditta Berlusconi-Lunardi, così come annunciato dal consorzio Berlusconi-Cuffaro, così come appaltato con gara a cui non ha partecipato alcuna impresa del mondo (salvo una, italiana, che si è aggiudicata da sola l'inesistente commessa) - quel Ponte è una costruzione impossibile. Alcuni di loro però hanno capito che non si poteva abbandonare il fortino della favola berlusconiana. Che cosa resta di cinque anni di governo a crescita zero e buco infinito, senza l'uomo del ponte e le sue magiche simulazioni che - forse, ci dice Enrico Deaglio - sono avvenute anche nella conta dei voti? Ma forse spiegheranno tutto questo il 2 dicembre alle loro folle in delirio.
SPARTACO: SIAMO CON VOI
da Ravenna Informa del 23 novembre 2006
Questa notte è stato incendiato il Centro Sociale Spartaco, in via Chiavica Romea. Nonostante non siano ancora chiare le dinamiche dell'incidente, si fa strada l'ipotesi che alcuni ignoti, all'1.30 circa della scorsa notte, siano entrati nel centro, sistemando due bombole di gas ed appiccando il fuoco. I pompieri, accorsi tempestivamente, hanno estinto l'incendio che nel frattempo, dopo aver bruciato la sala principale, aveva invaso la sala studio. Lo Spartaco, che ospitava numerose realtà associazionistiche ravennate tra le quali Municipio Autonomo, il Gruppo d'acquisto solidale, il Linux User Group, il Lanzo, Panopticon, e che organizzava concerti, cene di solidarietà e feste multiculturali, appare oggi ai passanti come un edificio annerito, con le tapparelle colate dalle fiamme ed i vetri esplosi dal calore. L'entità dei danni causati dall'incendio resta ancora incerta; per ora i locali del centro rimangono sotto sequestro dopo le perizie di indagine.
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QUESTO BLOG ANTIFASCISTA ESPRIME TOTALE SOLIDARIETA' AI RAGAZZI DEL CENTRO SOCIALE SPARTACO DI RAVENNA
sabato, novembre 25, 2006
ANCORA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE
Abbiamo già avuto modo di far conoscere il nostro pensiero sull'eutanasia commentando la tragica vicenda di Piergiorgio Welby, in un post pubblicato qualche mese fa: riproponiamo l'argomento sulla scorta di un articolo uscito sull'Unità a firma del sempre lucido e stimolante Furio Colombo.
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da l'Unità del 24 novembre 2006
Welby non può attendere
di Furio Colombo
Un atto di notevole civiltà umana e politica e di evidente valore morale è accaduto giovedì con la pubblicazione su questo giornale del testo a firma Anna Finocchiaro e Ignazio Marino a proposito del "testamento biologico" che vuol dire disporre per tempo in modo da non essere trascinati dall´accanimento terapeutico a forme disumane di apparente sopravvivenza ai confini della vita, anzi quando tutto ciò che chiamiamo vita finisce.La competenza di Ignazio Marino, insieme con la risoluta persuasione della capogruppo Ds al Senato danno a questo testo il tono netto di manifesto che potrà essere di guida in un percorso tutt´altro che facile. C´è un di più da notare: la determinazione di non negare il lavoro senza sosta dell´Associazione Luca Coscioni.Associazione la cui voce è apertamente riconosciuta nel testo Finocchiaro-Marino che non ignora, di questa materia, alcun passaggio.Ma chi è sensibile a questa voce sa di trovarsi di fronte l´appello civile e tragico di Piergiorgio Welby e sa che è necessario rispondere.Diciamo prima di tutto che - a partire dalla lettera di Welby al Capo dello Stato e dalla immediata risposta a quella lettera di Giorgio Napolitano - si è aperta in Italia una nuova e più alta stagione di civiltà in cui nessuno finge, coprendosi di buone parole, di non sapere e di non vedere l´immensità del dolore di alcuni, situazioni estreme in cui l´attesa è disumana e impossibile.Dunque è necessario tornare sulla questione "fine della vita" detta convenzionalmente "eutanasia". Non c´è alcuna convenienza politica a sollevare il tremendo problema. Non c´è alcun tornaconto umano o psicologico né alcuna consolazione affrontando questo argomento.Esperienza, saggezza, intelligenza politica suggeriscono il tracciato indicato nel testo pubblicato giovedì su l´Unità: un atteggiamento netto e mite che si ferma dove diventa impossibile che credenti e non credenti procedano insieme.La mattina di giovedì, a commento immediato del testo de l´Unità Marco Pannella ha detto a Radio Radicale il suo pieno apprezzamento per quello scritto-manifesto. E ha ricordato due cose: la prima, quanta strada di civiltà ha fatto in poco tempo il nostro Paese cominciando a smuovere subito ostacoli e malintesi enormi. La seconda, Piergiorgio Welby è sempre in attesa. E si tratta di una attesa il cui costo è umanamente impossibile. Paradossalmente il caso - e il momento, e il dibattito - sono resi ancora più gravi e urgenti dalla intelligente e comprensiva responsabilità di chi, come Finocchiaro e Marino, ha accettato di non scartare e di non ignorare l´argomento. Essi infatti giustamente indicano i delicatissimi e non facili passaggi per consentire alla opinione pubblica italiana di uscire dalla nebbia della realtà negata, per accostarsi senza spaccature e traumi insopportabili, a una visione più vera e più nitida del confine vita-morte e dell´ostacolo cieco dell´accanimento terapeutico.Con indiscutibile senso politico affermano: «Qui di eutanasia non si parla». Dunque dal loro discorso, che è nobile e condivisibile, resta fuori, in quel suo limbo atroce, Piergiorgio Welby e la sua civile e disperata volontà. Ma resta un vuoto anche nella limpida argomentazione sul testamento biologico. Una volta stabilito il diritto di non essere trascinati su e giù lungo il confine della vita, sia pure con la buona intenzione di non cedere alla morte, come si può tornare indietro, tornare al capezzale di Piergiorgio Welby, che intanto sta aspettando nel dolore? Chi, in che modo, si assumerà la responsabilità di lasciarlo giacere da solo per la ragione - assolutamente fondata ma per lui insopportabile, dunque inaccettabile - che non tornano i tempi, che prima bisogna lavorare cautamente e saggiamente al testamento biologico, e che tale lavoro non si può bloccare chiedendo e sostenendo l'impossibile richiesta di Welby? So che sto forzando il senso del discorso Finocchiaro-Marino, e rischio di danneggiare il solido e utile processo logico da essi seguito. Ma non riesco a tagliare da questo drammatico film il fotogramma Welby. Non credo che si possa. Non credo che si debba. E non credo che ci sia il tempo ragionevole e paziente richiesto dai normali processi di decisione politica.
di Furio Colombo
Un atto di notevole civiltà umana e politica e di evidente valore morale è accaduto giovedì con la pubblicazione su questo giornale del testo a firma Anna Finocchiaro e Ignazio Marino a proposito del "testamento biologico" che vuol dire disporre per tempo in modo da non essere trascinati dall´accanimento terapeutico a forme disumane di apparente sopravvivenza ai confini della vita, anzi quando tutto ciò che chiamiamo vita finisce.La competenza di Ignazio Marino, insieme con la risoluta persuasione della capogruppo Ds al Senato danno a questo testo il tono netto di manifesto che potrà essere di guida in un percorso tutt´altro che facile. C´è un di più da notare: la determinazione di non negare il lavoro senza sosta dell´Associazione Luca Coscioni.Associazione la cui voce è apertamente riconosciuta nel testo Finocchiaro-Marino che non ignora, di questa materia, alcun passaggio.Ma chi è sensibile a questa voce sa di trovarsi di fronte l´appello civile e tragico di Piergiorgio Welby e sa che è necessario rispondere.Diciamo prima di tutto che - a partire dalla lettera di Welby al Capo dello Stato e dalla immediata risposta a quella lettera di Giorgio Napolitano - si è aperta in Italia una nuova e più alta stagione di civiltà in cui nessuno finge, coprendosi di buone parole, di non sapere e di non vedere l´immensità del dolore di alcuni, situazioni estreme in cui l´attesa è disumana e impossibile.Dunque è necessario tornare sulla questione "fine della vita" detta convenzionalmente "eutanasia". Non c´è alcuna convenienza politica a sollevare il tremendo problema. Non c´è alcun tornaconto umano o psicologico né alcuna consolazione affrontando questo argomento.Esperienza, saggezza, intelligenza politica suggeriscono il tracciato indicato nel testo pubblicato giovedì su l´Unità: un atteggiamento netto e mite che si ferma dove diventa impossibile che credenti e non credenti procedano insieme.La mattina di giovedì, a commento immediato del testo de l´Unità Marco Pannella ha detto a Radio Radicale il suo pieno apprezzamento per quello scritto-manifesto. E ha ricordato due cose: la prima, quanta strada di civiltà ha fatto in poco tempo il nostro Paese cominciando a smuovere subito ostacoli e malintesi enormi. La seconda, Piergiorgio Welby è sempre in attesa. E si tratta di una attesa il cui costo è umanamente impossibile. Paradossalmente il caso - e il momento, e il dibattito - sono resi ancora più gravi e urgenti dalla intelligente e comprensiva responsabilità di chi, come Finocchiaro e Marino, ha accettato di non scartare e di non ignorare l´argomento. Essi infatti giustamente indicano i delicatissimi e non facili passaggi per consentire alla opinione pubblica italiana di uscire dalla nebbia della realtà negata, per accostarsi senza spaccature e traumi insopportabili, a una visione più vera e più nitida del confine vita-morte e dell´ostacolo cieco dell´accanimento terapeutico.Con indiscutibile senso politico affermano: «Qui di eutanasia non si parla». Dunque dal loro discorso, che è nobile e condivisibile, resta fuori, in quel suo limbo atroce, Piergiorgio Welby e la sua civile e disperata volontà. Ma resta un vuoto anche nella limpida argomentazione sul testamento biologico. Una volta stabilito il diritto di non essere trascinati su e giù lungo il confine della vita, sia pure con la buona intenzione di non cedere alla morte, come si può tornare indietro, tornare al capezzale di Piergiorgio Welby, che intanto sta aspettando nel dolore? Chi, in che modo, si assumerà la responsabilità di lasciarlo giacere da solo per la ragione - assolutamente fondata ma per lui insopportabile, dunque inaccettabile - che non tornano i tempi, che prima bisogna lavorare cautamente e saggiamente al testamento biologico, e che tale lavoro non si può bloccare chiedendo e sostenendo l'impossibile richiesta di Welby? So che sto forzando il senso del discorso Finocchiaro-Marino, e rischio di danneggiare il solido e utile processo logico da essi seguito. Ma non riesco a tagliare da questo drammatico film il fotogramma Welby. Non credo che si possa. Non credo che si debba. E non credo che ci sia il tempo ragionevole e paziente richiesto dai normali processi di decisione politica.
giovedì, novembre 16, 2006
BROGLI ELETTORALI ? MA DI CHI ?
Non siamo esperti di statistica nè tanto meno d'informatica: non possiamo pronunciarci, quindi, da un punto di vista meramente "tecnico" sulla possibilità di portare a termine un broglio elettorale nel modo in cui gli autori del film ipotizzano. Una cosa, tuttavia, la sappiamo bene (e con noi, milioni di italiani): la "Banda Bassotti" che ci ha governato nei cinque anni precedenti le ultime elezioni, si è dimostrata capace di qualsiasi cosa pur di mantenere il potere e, con esso, l'impunità. Leggi "ad personam" approvate a piene mani, senza pudori e/o scrupoli di alcun tipo, stanno a testimoniare l'irriducibile volontà di usare tutti gli strumenti a disposizione pur di raggiungere gli scopi prefissati; per questo non riusciamo a catalogare il film di Cremagnani e Deaglio nella "fantapolitica" tout court e saremmo lieti se, chi ne ha le possibilità, decidesse di indagare più a fondo.
Sul film, in prossima uscita, proponiamo un interessante articolo apparso sull'Unità.
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da l'Unità del 14 novembre 2006
Film sui «brogli» del Polo «Conti sbagliati e misteri»
Film sui «brogli» del Polo «Conti sbagliati e misteri»
Deaglio e Cremagnani: anomalie sulle schede bianche
di Gian Guido Vecchi
Uccidete la democrazia!, il nuovo film di Beppe Cremagnani ed Enrico Deaglio con la regia di Ruben H. Oliva, non è questione di sindrome da complotto ma di numeri, numeri e ore. Gli autori lo dicono subito, prima che scorrano in anteprima le immagini e Gola Profonda inizi il suo racconto. La notte di lunedì 10 aprile 2006 è ormai sfumata nel martedì e l'Italia è in sospeso, il flusso dei dati elettorali s'è bloccato, «non si riesce a capire che sta succedendo» dice Romano Prodi, l'esito delle elezioni è più che mai in bilico e intanto a Palazzo Grazioli, quartier generale di Berlusconi, è arrivato Beppe Pisanu. Mai successo che un ministro dell'Interno lasciasse il suo posto in un momento così. C'era già stato verso le 19,20. Per convocarlo, alle 23,14 gli telefonano al Viminale, «l'hanno costretto, letteralmente costretto ad andare». Berlusconi è furibondo, «gli grida in faccia, dice che lui non è disposto a perdere per una manciata di voti». Pisanu torna al Viminale e là ci sono quelli dell'Unione. Marco Minniti, Ds, è piombato in sala stampa agitatissimo, ha cercato i funzionari, ha fatto una telefonata. Poi si è rasserenato. Testimonianze. Immagini dei tg. E Gola Profonda che racconta: più tardi, a Palazzo Grazioli, ci sono quattro uomini chiusi in una stanza. Berlusconi, Bondi, Cicchitto e, ancora, Pisanu. Il Cavaliere non ci sta. E il clima si fa pesante, per il ministro. Volano insulti, «vigliacco», «traditore». Sono le 2.44 quando Piero Fassino annuncia alle telecamere: abbiamo vinto. A quanto pare dal film, il grande imbroglio informatico è sfumato in extremis, il programma che nel sistema di trasmissione dati del Viminale trasformava le schede bianche in voti per Forza Italia è stato fermato a ventiquattromila voti dal traguardo, l'esiguo vantaggio dell'Unione. E a questo punto le immagini rallentano, scrutano il volto segnato del segretario Ds, le occhiaie scure, lo sguardo cupo, mai vista una proclamazione così. In via del Plebiscito Berlusconi fa chiamare l'onorevole Ghedini, vuole preparare un decreto che dice farà approvare dal Consiglio dei ministri per sospendere il risultato elettorale fino a un nuovo conteggio e assicura che lo farà firmare a Ciampi. Ma dal Colle fanno sapere che il Presidente «non vuole neanche sentirla», una richiesta simile. Abbiamo evitato un golpe? «Non s'innamori dei paroloni: guardi i numeri», sorride Gola Profonda, alias uno strepitoso Elio De Capitani, l'ex «Caimano» di Moretti che nel film incarna tutte le fonti riservate dell'inchiesta. Il personaggio che racconta quella notte delle Politiche 2006 è fittizio, «ma i numeri sono veri», spiega Deaglio, «aspettiamo che intervengano i magistrati, che il ministro chiarisca, che il presidente Napolitano ci rassicuri ». Gli autori sono partiti da un libro, Il broglio, firmato da un anonimo «Agente Italiano» e uscito a maggio. Il dvd contiene i dati provincia per provincia. Numeri che il Viminale pubblica di solito «dopo 40 giorni» e fino ad oggi sono rimasti riservati. Perché? «Perché sono impresentabili, ecco perché». Al centro del «docu-thriller», il mistero delle schede bianche. Dalle Politiche 2001 a quelle 2006, per la prima volta nella storia della Repubblica, sono crollate: da 1.692.048 ad appena 445.497, 1.246.551 in meno. Maggiore partecipazione? Ma gli elettori, al netto dei votanti all'estero, sono stati di meno: 39.424.967 contro i 40.190.274 di cinque anni fa. E soprattutto ci sono le «anomalie» statistiche. L'Italia è varia, la percentuale di «bianche» nel 2001 cambiava ad ogni regione, 2,6 in Toscana, 9,9 in Calabria, 5,5 in Sardegna... L'animazione del film fa ruotare lo Stivale come in una centrifuga, nel 2006 i dati sono omologati, «tutto dall'1 al 2%, isole comprese!».Tutto più o meno uguale, e non un posto dove le bianche non siano calate. In Campania, per dire, si è passati da 294.291 bianche a 50.145, meno duecentocinquantamila, dall'8 all'1,4%. E poi c'è la successone degli eventi. Alle 15 il primo exit-poll dà all'Unione cinque punti di scarto, come tutti i sondaggi. Ma alle 15,45 Denis Verdini, responsabile dell'ufficio elettorale di Forza Italia, dice che «alla Camera è testa a testa, lo si vedrà dopo diverse proiezioni». E infatti: un'animazione mostra la «forbice» tra gli schieramenti che diminuisce «regolare come un diesel», ogni ora la Cdl guadagna mezzo punto e l'Unione lo perde. I primi dati del Viminale arrivano alle 20,19 e proseguono col contagocce. Alle 21,38 l'Ulivo invita a «presidiare i seggi», quando si bloccano i dati manda il segretario provinciale a Caserta. Inizia la lunga notte. Resta da scoprire l'arma del delitto. E Deaglio, nel film, vola in Florida a intervistare Clinton Curtis, programmatore informatico che nel 2001, inconsapevole, preparò un software per truccare le elezioni e poi ha denunciato tutto e ne ha fatto una battaglia. «Qualsiasi broglio le venga in mente, con la matematica si può fare». E al direttore di Diario, in mezz'ora, prepara un programma che distribuisce in automatico le bianche a uno schieramento lasciandone una percentuale tra l'1 il 2, «si può inserire nel computer centrale o a metà della rete, bastano quattro o cinque persone». Deaglio dice che le bianche mancanti e i voti in più di Forza Italia corrispondono: «Sono gli unici risultati sbagliati dagli exit-poll». Problema: se è vero, perché Berlusconi ha perso? La tesi del film è nella domanda che Deaglio fa a Curtis: è possibile interrompere il processo? «In ogni momento». Si torna alla notte di Palazzo Grazioli. Le pressioni su Pisanu. Il «colpo di teatro», l'arresto di Provenzano l'indomani. E l'«antropologia» dei democristiani, il loro fiuto infallibile. Gola Profonda conclude: «Quella sera il ministro ha fiutato. Ha capito subito che Berlusconi era un gatto che si agitava, ma era un gatto morto. E ha agito di conseguenza».
domenica, novembre 12, 2006
MAZZARINI PALMINA DI ANNI SEI..........
In questo blog amiamo la Resistenza: quella con la R maiuscola, quella che ha visto i nostri padri e/o i nostri nonni combattere e, purtroppo, anche perdere la vita. Tanti eroi spesso sconosciuti, uomini e donne che si sono spinti fino all'estremo sacrificio per sostenere le idee in cui credevano fermamente, sorretti da valori genuini profondamente radicati, valori nati nei campi, nelle fabbriche, ideali cementati dalla fame, dalla miseria, dalla povertà, dalla pancia vuota con cui ci si addormentava alla sera e ci si risvegliava al mattino.
In questo blog amiamo la Resistenza e disprezziamo profondamente revisionisti d'ogni risma, paraculi e voltagabbana, fascisti in camicia nera e fascisti in giacca e cravatta, assassini che l'hanno fatta franca e che, ancor oggi, pur anziani, se ne stanno infognati nello squallore di una vita vissuta nella miseria morale ma, spesso, nella ricchezza materiale.
In questo blog amiamo la Resistenza e per questo non finiremo mai di ringraziare chi, per il lavoro che svolge, per le possibilità che gli sono date, per gli strumenti di cui può disporre, fa da cassa di risonanza per mantenere vivo il ricordo dei morti e il disprezzo per i loro assassini.
In questo blog amiamo la Resistenza e oggi vogliamo dire grazie a "Gang", band marchigiana che, con l'infaticabile lavoro dei fratelli Marino e Sandro Severini, da voce a chi, da molto tempo, non l'ha più, conservandone vivo il ricordo e la memoria.
Dall'ultimo spendido cd, "Il seme e la speranza", trascriviamo il testo di "4 maggio 1944 - in memoria".
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Il 4 maggio 1944 le orde nazifasciste (più di duemila aguzzini) assediarono la località di Sant'Angelo di Arcevia nella provincia di Pesaro-Urbino. Uccisero barbaramente 63 persone, partigiani e civili. Fra questi i componenti della famiglia Mazzarini, una famiglia contadina che aveva offerto rifugio e riparo ai partigiani che operavano in quella località.
---------------------4 maggio 1944 - in memoria---------------------
testo e musica: Marino e Sandro Severini
All'alba del 4 di maggio
arrivarono le orde assassine
portavano croci uncinate
la feccia del terzo regime.
Li guardavano i cani da guardia
la guardia dei repubblichini
in tanti più di duemila
duemila vili aguzzini.
E all'alba quassù sopra il monte
Sant'Angelo s'era svegliato
quando aprirono il fuoco
e a calci le porte sfondarono
ed entrò così l'inferno
l'inferno qui sulla terra
l'inferno quello dei vivi
l'inferno che chiamano guerra.
E pietà, pietà gridammo
fra le lacrime ed i lamenti
prima gli alberi e le mura
poi noi cademmo innocenti.
Mazzarini Maria presente
Mazzarini Lello presente
Mazzarini Marino presente
Mazzarini Pietro presente
Mazzarini Rosa presente
Mazzarini Santa presente
Mazzarini Palmina di anni sei
presente.
All'alba del 4 di maggio
ci bucarono gli occhi e le mani
perchè nostra colpa era quella
di essere fratelli dei partigiani.
Ma il sangue nostro versato
è quello che inizia la terra
nell'ora della promessa
ora e sempre Resistenza.
Mazzarini Maria presente
Mazzarini Lello presente
Mazzarini Marino presente
Mazzarini Pietro presente
Mazzarini Rosa presente
Mazzarini Santa presente
Mazzarini Palmina di anni sei
presente.
Mazzarini Lello presente
Mazzarini Marino presente
Mazzarini Pietro presente
Mazzarini Rosa presente
Mazzarini Santa presente
Mazzarini Palmina di anni sei
presente.
Era l'alba del 4 di maggio
per sempre ne avremo memoria
perchè è l'alba di un giorno
che fa nostra la storia.
Perchè mai più ritorni
l'inferno qui sulla terra
l'inferno quello dei vivi
l'inferno che si chiama guerra.
Mazzarini Maria presente
Mazzarini Lello presente
Mazzarini Marino presente
Mazzarini Pietro presente
Mazzarini Rosa presente
Mazzarini Santa presente
Mazzarini Palmina di anni sei
presente.
Mazzarini Lello presente
Mazzarini Marino presente
Mazzarini Pietro presente
Mazzarini Rosa presente
Mazzarini Santa presente
Mazzarini Palmina di anni sei
presente.
lunedì, novembre 06, 2006
PER UNA VOLTA CHE NE FA UNA DELLE BUONE....
Marco Travaglio non sarà, come sottolineano alcuni, un mostro di simpatia, tuttavia è uno dei pochissimi giornalisti in Italia che ancora scrive in assoluta libertà e per questo è spesso "bacchettato" sia dalla destra che dalla sinistra.
Noi, ritenendolo un personaggio degno di stima, riprendiamo sempre volentieri le cose che scrive, soprattutto quando, come nell'articolo che segue, sa essere anche estremamente divertente nel prendere per i fondelli il direttore di "Libero", Vittorio Feltri, scagliatosi contro Letizia Moratti, colpevole di non aver reso omaggio ai morti di Salò: accidenti, per una volta che la sindaca ne fa una delle buone.....
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da l'Unità del 4 novembre 2006
Monsieur de Pompadour
Monsieur de Pompadour
di Marco Travaglio
A dieci anni dalla chiusura di Cuore, c’è ancora qualcuno che si domanda perché non ci sia più spazio, in Italia, per un giornale satirico. Ma, dico io, l’hanno mai letto Libero? Che cosa potrebbe inventarsi di più divertente un foglio di satira? Ieri, tanto per dirne una, il titolo a tutta prima pagina era il seguente: «Scusa, Moratti, ma sei scema?». Littorio Feltri ce l’aveva con la neosindaca di Milano perché, non contenta di voler imporre il pedaggio a chi entra in città con l’auto, ha addirittura «snobbato nelle visite ai morti quelli della Repubblica sociale di Salò». Il che, agli occhi di Feltri, è veramente intollerabile. Ora, che cos’è satira se non ribaltare la realtà per sottolinearla meglio? Feltri - anche se non lo sa - è satira pura. Ve l’immaginate il sindaco di Parigi che rende omaggio ai collaborazionisti filonazisti di Vichy, mettendoli alla pari del generale Charles De Gaulle? Ve lo vedete il sindaco di Madrid che piange sulla tomba del generalissimo Franco e dei suoi sgherri? Viene da ridere soltanto a pensarci. Invece, in Italia, la Moratti viene chiamata a discolparsi per aver ignorato i repubblichini che, oltre a sparare su suo padre partigiano, mandavano gli ebrei nei lager e sognavano per l’Italia un radioso futuro al passo dell’oca. E questa è solo la prima pagina di Libero. Avventurandosi oltre, ci si imbatte nella tradizionale rubrica di Carlo Taormina da Cogne, che è sempre un bel leggere. E, new entry dell’ultim’ora, in quella di Pietro Lunardi, strepitosamente intitolata «Alta Velocità». L’ex ministro Gruviera deplora i ritardi nelle grandi opere, «da addebitare solo all’ostruzionismo dei Verdi». E se lo dice l’uomo che doveva raddoppiare la Grande Muraglia cinese e la piramide di Cheope mentre in cinque anni non è riuscito a ultimare neppure un canile per chiuaua, c’è da crederci. Negli Spettacoli, un’intera pagina è dedicata allo straziante appello di Cristiano Malgioglio a Silvio Berlusconi: «Ti prego, riportami in tv». Il noto intellettuale con la cresta gialla ha addirittura composto una canzone, «Caro Silvio», con testi da pelle d’oca («Lei potente/ io un niente/ eroe di mamma mia solamente/ cosa fare/ dove andare/ per essere una star da sognare?»), endecasillabi sciolti («Caro Berlusconi/ vorrei una soluzione/ che sia quella finale/ che mi dia una svolta./ Caro Berlusconi/ se solo mi notasse/ sarei il più bel nome/ internazionale…») e rime baciate («Finti divi, spazzatura/ e io mi faccio suora/… Caro Berlusconi/ che popola i miei sogni/ mi spinga giù dal letto/ o dal parapetto./ Mi conceda un’occhiata/ di sfuggita, di traverso/ ma non gelata»). Nello Sport chiude in bellezza «Caro Luciano», nel senso di Moggi che risponde alle lettere dei fans bianconeri, sempre più grati all’uomo che, dopo oltre un secolo di storia, è riuscito nell’impresa di a mandare la Juventus in serie B. E tutto questo è niente, se si pensa che fino a un mese fa la prima pagina di Libero era impreziosita dagli scoop della joint venture Renato Farina-Pio Pompa. Poi purtroppo calò la mannaia dell’Ordine dei Giornalisti, che ha «punito» l’agente Betulla sospendendolo per 12 mesi dalla professione (solo quella di giornalista, non quella di spia, che può continuare in incognito). Ora la Procura generale di Milano ha impugnato la delibera, chiedendo la radiazione di Farina: in effetti,se prendere soldi dal Sismi, pubblicare bufale su ordinazione, spiare colleghi e pedinare magistrati è roba da semplice sospensione, che deve fare chi vuole a tutti i costi farsi espellere? Intanto, su proposta di due consiglieri forzisti, il Comune di Milano sta lavorando alla pena accessoria: insignire Farina dell’Ambrogino d’Oro, l’alta onorificenza riservata alle personalità che han fatto grande il nome della città. Due anni fa alcuni temerari proposero Francesco Saverio Borrelli, ma poi si scoprì che è incensurato e fu subito scartato. Farina Doppio Zero invece, come sottolinea lo stesso Feltri, è il candidato ideale. Resta da capire che ne direbbe, se potesse, sant’Ambrogio. Ecco, forse è meglio scherzare coi fanti e lasciar stare i santi. Cioè cambiar nome all’Ambrogino. Intitolandolo a Farina diventerebbe il Betullino d’Oro. Intitolandolo a Pollari, il Pollarino d’Oro. Ma, volendo essere filologici, bisognerebbe proprio intitolarlo a Pompa: così, per assegnarlo a Farina, non occorrerebbe neppure la motivazione. Più che un premio, sarebbe un diritto acquisito.
sabato, novembre 04, 2006
IL LENIN CHE PIANGE (parte seconda)
Ci siamo recati in pellegrinaggio, seminando giornalisti e paparazzi, nell'abitazione in cui il bustino di Lenin piange lacrime di sangue. Da quando la notizia è trapelata, il mondo politico ravennate è in gran subbuglio e si interroga; anche se a destra si continua a gridare all'imbroglio, tuttavia non sono pochi coloro che, specie nell'UDC, ritengono sia possibile, viste le tante Madonne piangenti, che anche un Lenin possa fare altrettanto. Tra costoro prevale la tesi che sia la Madonna stessa ad aver fatto sgorgare dagli occhi di Vladimir Ilic Ulianov lacrime che assumono il significato di un pentimento (se pur tardivo) per le nefandezze e i crimini perpetrati dal comunismo in tutto il mondo; naturalmente nella sinistra si contesta questa interpretazione, pur se, in verità, nessuno ancora osa avventurarsi in teorie alternative.
Nel frattempo noi, proprio mentre ferve il dibattito, assistiamo allo straordinario evento, in un'atmosfera impregnata di misticismo e commozione: vediamo vecchi compagni che, sventolando antiche tessere del PCI, salutano con il pugno alzato e gli occhi umidi, attempati sessantottini che gridano in coro "ce n'est qu'un debut", ex-femministe (oggi felicemente sposate) intonare "tremate, tremate....", il tutto accompagnato da parole di riprovazione di vecchi sindacalisti cgil, cisl, uil.
Il tempo stringe, compagni: fra non molto i giornalisti delle tv e dei giornali saranno sul posto e l'atmosfera magicamente irreale verrà irrimediabilmente inquinata. Prima che ciò accada, dobbiamo scoprire cosa fa piangere il vecchio Lenin, subito o non sarà più possibile.
Se qualche compagno dovesse trovarsi a passare da questo sperduto (e del tutto sconosciuto) sito, in nome del nostro "idem sentire", per favore, ci aiuti!
(continua, forse...).
Nel frattempo noi, proprio mentre ferve il dibattito, assistiamo allo straordinario evento, in un'atmosfera impregnata di misticismo e commozione: vediamo vecchi compagni che, sventolando antiche tessere del PCI, salutano con il pugno alzato e gli occhi umidi, attempati sessantottini che gridano in coro "ce n'est qu'un debut", ex-femministe (oggi felicemente sposate) intonare "tremate, tremate....", il tutto accompagnato da parole di riprovazione di vecchi sindacalisti cgil, cisl, uil.
Il tempo stringe, compagni: fra non molto i giornalisti delle tv e dei giornali saranno sul posto e l'atmosfera magicamente irreale verrà irrimediabilmente inquinata. Prima che ciò accada, dobbiamo scoprire cosa fa piangere il vecchio Lenin, subito o non sarà più possibile.
Se qualche compagno dovesse trovarsi a passare da questo sperduto (e del tutto sconosciuto) sito, in nome del nostro "idem sentire", per favore, ci aiuti!
(continua, forse...).